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venerdì 13 dicembre 2013

Grillo, Oppo, noi giornalisti

di Alessandro Gilioli

Che dite, si può provare – ora che è quasi un cold case – a parlare di giornalisti, Grillo, Oppo e tutto il resto?
Beh, qui ci si tenta: con l’ovvio disclaimer che lo scrivente – da quasi trent’anni – fa parte della categoria.
Da quasi trent’anni, appunto. Quando ho iniziato a fare questo mestiere, noi venivamo educati all’idea che i giornalisti giudicano ma tendenzialmente non devono essere giudicati.
Era una sorta di immunità presunta, derivata dal postulato secondo il quale il giornalista raccontava fatti e/o esprimeva opinioni sempre in buona fede, senza cointeressenze personali, senz’altre ambizioni che non fossero quelle di fare il cronista o di contribuire al dibattito politico, culturale, economico etc.
Era una balla, naturalmente: i giornalisti – in buona parte – non sono mai stati così, almeno in Italia. Siamo sempre stati una categoria in cui alle non moltissime schiene diritte si mescolavano le penne a zerbino: per conformismo, convenienza, ambizione personale, fedeltà di partito, subalternità ai poteri, complicità, privilegi piccoli o grandi e altre ragioni ancora.
Non è che lo scopro io adesso, è ovvio: leggetevi «Carte False» di Giampaolo Pansa (è del 1986 ma su eBay lo trovate ancora): era già tutto lì. Oppure andate ancora più indietro e cercate in giro una copia di «Fa Notizia», di Giovanni Cesareo (1981). Così magari si smonta per sempre l’idea che ci sia stata un’epoca in cui in questo Paese i professionisti dell’informazione facevano i cani da guardia del potere (con le dovute eccezioni, naturalmente).
Poi, per fortuna, a poco a poco questa immunità e questa finzione scenica hanno iniziato a sgretolarsi.
Io l’ho visto con i miei occhi, questo processo. È iniziato con un’invenzione tecnologica: la mail. Prima, quando un giornalista scriveva una sciocchezza (o comunque qualcosa di contestabile) al massimo arrivavano in redazione un paio di lettere cartacee che finivano rapidamente nel cestino. Con la posta elettronica, ecco che le contestazioni, le rettifiche, le correzioni (ma anche le prese per i fondelli) hanno iniziato a moltiplicarsi a dismisura.
Poi sono arrivati i blog, il web 2.0, i social network : insomma qualsiasi cittadino è diventato potenzialmente produttore di contenuti accessibili in qualsiasi luogo del pianeta. E la fessura nella diga è diventata un’alluvione: di verifiche, analisi, attacchi, debunking etc etc su quello che il giornalista scriveva. Il tutto, appunto, in pubblico.
Oh, io me lo ricordo, il trauma, nelle redazioni. La brusca discesa dal piedistallo. Cacchio: se sparavi balle adesso ti beccavano. Se scopiazzavi in giro, venivi ridicolizzato in un quarto d’ora. E quanto stupore nello scoprire che spesso il crowd, su un determinato tema, ne sapeva più di te!
Diciamo la verità: non è stato indolore, il passaggio. Pochi colleghi l’hanno colto come strumento per migliorarsi. Molti l’hanno sofferto come la fine di un’epoca felice. È umano, è normale: per quanto fosse sbagliato.
Ma non basta.
Perché in Italia la «caduta dal piedistallo» della categoria è coincisa con un cambiamento storico di umore diffuso, di sentiment. E con una fase economica in cui il Paese si è diviso tra sommersi e salvati. Con l’odio crescente dei primi verso i secondi.
E i giornalisti – tutti, più o meno – sono stati identificati con i salvati. Con la «Casta». Con l’establishment. Con la vicinanza al potere.
È – anche questa – una percezione solo in parte fedele della realtà fattuale. Prima di tutto perché proprio mentre cresceva il disprezzo per i giornalisti, questi perdevano non solo la loro precedente immunità, ma anche gli stipendi che ne avevano fatto, per decenni, una categoria di privilegiati. Lo sanno bene quelli entrati nella professione di recente, quasi sempre precari e spesso con redditi da call center.
Ma tant’è, ormai la frittata era fatta. I giornalisti hanno iniziato non solo a essere giudicati per quello che scrivevano (e giustamente messi ai raggi X parola per parola), ma sono diventati obiettivo conflittuale nella lotta alla Casta e all’establishment, proprio come i politici.
Ci sta, diciamo. Nel senso che se guardiamo quello che abbiamo fatto, come categoria, per tanti decenni, probabilmente questa pena del contrappasso ce la meritiamo. Anche se spesso poi a pagarne il fio non sono quelli che hanno fatto i danni ma quelli che non c’entrano niente. Ma transeat.
Tuttavia, a questo punto, forse sarebbe ora di arrivare a una sintesi tra tesi e antitesi. Verso un luogo in cui si è capaci di andare oltre tanto l’immunità erga omnes quanto l’anatema erga omnes. Verso una buona pratica (in termini di utilità sociale, di miglioramento della società tutta) che si può provare a perseguire dopo la fase in cui i giornalisti erano tutti immuni sul piedistallo e quella in cui invece sono tutti casta cui sputare in faccia.
E la buona pratica si chiama trasparenza; civiltà; dibattito aperto; verifica; confronto tra persone per quello che le persone fanno e scrivono anziché per la categoria a cui appartengono. Rispetto per le opinioni di tutti, se sono opinioni espresse in onestà intellettuale, senza interessi personali, senza asservimenti pelosi. Oppure denuncia fondata di cointeressenze, di relazioni di potere, di asservimenti nascosti: se è il caso. Con il faro della trasparenza, appunto.
Così arrivo al caso Oppo – scusandomi se ci ho messo parecchio.
Cosa c’era di brutto, di sbagliato e di incivile nell’attacco di Grillo a Oppo?
Non l’intoccabilità del giornalista, lo si è detto. Abbiamo tutti il dovere di essere giudicati. Giornalisti e no. Politici e no. Tutti quelli che scrivono, sui giornali o sui social network o in qualsiasi altro posto. Ci mancherebbe.
Quello che era davvero storto nel post di Grillo erano altre cose.
Ad esempio, le argomentazioni: «È mantenuta dai contribuenti da 40 anni grazie ai finanziamenti pubblici all’editoria» non è un’argomentazione polemica su eventuali bugie dette da Oppo o su errori da lei commessi. È solo una violenza gratuita e sciocca verso una persona che ha sempre lavorato prendendo il suo salario. Come se uno se la prendesse con Grillo perché ha incassato per anni i soldi dalla Rai o dagli stessi partiti (Pci compreso) quando faceva show nelle feste dell’Unità. È un’argomentazione polemica fondata, questa? Oppo e Grillo non vanno semmai giudicati per quello che hanno detto e fatto, che dicono e fanno, come persone presenti nel pubblico dibattito?
Il resto del post di Grillo, poi, è composto da opinioni di Oppo contro il M5S. Beh? Qual è il problema? Se questo è il pensiero di Oppo, espresso in onestà intellettuale perché la pensa così - peraltro in coerenza con il suo giornale – dove sta la motivazione della messa all’indice con foto segnaletica? Semmai le si ribatta sul merito, no? Altrimenti si dà l’idea – forse non infondata – che secondo Grillo gli unici giornalisti non pennivendoli siano quelli che gli danno sempre ragione.
Il che non gli renderebbe molto merito. Ma soprattutto non aiuterebbe l’informazione a migliorare. Perché l’informazione migliora quando chi la fa viene sottoposto ogni giorno a un check – pure feroce – su quello che scrive, che fa o che dice: ma concreto, fattuale, puntuale, onesto, autentico. Con una contrapposizione di argomenti, di visioni, di idee, di fatti. Con l’onestà intellettuale. Con la trasparenza. Possibilmente senza riferimenti ai difetti fisici dell’interlocutore. O alla sua appartenenza a una categoria – quale che essa sia. Facendo infine propria, se possibile, anche una ecologia del linguaggio che ormai mi pare irrimandabile e che ha come unica alternativa la barbarie e i forconi.
Solo così ci miglioriamo, credo. Giornalisti e no. Politici e no. Militanti e no.
Tutti, insomma. Non vi pare?
Alessandro Gilioli
L’Espresso

sabato 19 ottobre 2013

I giornalisti? D'ora in poi dovranno pensare multimediale!

di PAOLO BUTTURINI
Segretario Associazione Stampa Romana

La rivoluzione digitale è arrivata anche nel tempio dell'Informazione economica: il Financial Times compie un passo decisivo, non tanto verso l'ormai vecchio schema dell'integrazione fra carta e web, che i nostri editori si ostinano a percorrere, ma verso una vera svolta che fa della Rete il motore propulsivo della filiera produttiva informativa.
In concreto: «Il Financial Times verrà prodotto da una più circoscritta squadra concentrata sul cartaceo, ma che lavorerà spalla a spalla con una più vasta e articolata equipe dedicata al web e agli aggiornamenti». Più specificatamente, come spiega il direttore Lionel Barber: «Redattori e inviati saranno chiamati a concentrarsi meno sulla raccolta di notizie in maniera reattiva e più sul valore aggiunto delle notizie in contesto».
Dobbiamo partire da questo passaggio ineluttabile se vogliamo inquadrare la trattativa per il rinnovo del Contratto Nazionale di Lavoro Giornalistico che prende avvio in questi giorni. Dando per scontato uno spaventoso ritardo di elaborazione sia culturale che sindacale.

Un Contratto senza la Categoria?

Il primo pericolo è quello di un confronto che prescinda dalla base sindacale. Questo momento così delicato, che si colloca sul crinale di una crisi epocale, sia industriale che di prodotto, necessita di una discussione «trasparente e inclusiva». Non è possibile immaginare, come fu per l'ultima negoziazione, un confronto ristretto che partorisca un articolato da presentare preconfezionato al giudizio di colleghe e colleghi. Il tempo, in questo contesto, deve essere scandito da passaggi di verifica continui e che coinvolgano tutte le strutture, di base e non, della Fnsi.

Tenere conto del contesto

La trattativa va correttamente posta nel contesto in cui si sviluppa, alla luce delle profonde trasformazioni che sono già avvenute nei modelli organizzativi redazionali, nelle pianificazioni del lavoro giornalistico e confrontandosi con gli inevitabili processi che fanno da corollario alla digitalizzazione delle notizie (vedi l'esempio del Financial Times). Non si tratta semplicemente del vetusto schema carta+web, è in fase avanzata un percorso di profondo cambiamento del modo di esercitare la professione. I giornalisti, da ora in poi, dovranno «pensare multimediale» prima ancora che produrre su più piattaforme, dovranno governare, nel segno della qualità e dell'approfondimento, il flusso ininterrotto di news che la rete genera. Questo implica tre cose:
1°) l'estrema ma attualità del tema «qualità dell'informazione»;
2°) una rinnovata centralità e autonomia del lavoro giornalistico;
3°) la necessità di adottare il parametro della «formazione permanente».

L'occupazione prima di tutto

Le trasformazioni in atto, dunque, determinano la necessità di privilegiare il tema dell'occupazione stabile e di qualità che inverta definitivamente il trend di impoverimento delle redazioni e di scadimento della professione. In parole povere, come affermò tempo fa il presidente della Fieg, Giulio Anselmi: «Bisogna tornare ad assumere giornalisti». Aggiungo: bisogna smettere di espellere professionalità e saperi dalle testate, ma imparare a farli dialogare con le nuove generazioni, naturalmente più portate, quando non native, al digitale. Allo stesso tempo, serve un ridisegno del percorso che porta all'assunzione e una pianificazione dell'aggiornamento professionale che, in un breve lasso di tempo, si trasformi in formazione permanente. Decisivo sarà anche il tema delle «nuove figure professionali» che potrebbero essere il concreto trait d'union e strumento di transizione dalle redazioni «analogiche» a quelle «digitali».

Il lavoro autonomo

In questi ultimi anni, fortunatamente, il tema del lavoro autonomo giornalistico, ha trovato dignità nelle discussioni sindacali. È però arrivato il momento di porre un punto fermo che si traduca in spunti concreti per il rinnovo contrattuale e delle norme che regolano l'apporto dei colleghi non dipendenti. Occorre prima di tutto mettere fine a un'ambiguità, senza sciogliere la quale ogni riforma sarebbe inutile: va definitivamente separata la figura del «precario» da quella del «freelance». Il primo va ricondotto pienamente all'interno del lavoro subordinato o, in minima parte, parasubordinato; il secondo va messo in grado di competere sul mercato attraverso una ridefinizione della sua figura professionale, anche nel contratto, e una rete di «servizi ai professionisti autonomi» con un welfare su misura e strumenti di formazione aggiornamento continui.

La rimozione del conflitto

Da tempo, incomprensibilmente, il conflitto è stato rimosso dall'orizzonte sindacale. Non che abbia nostalgia per gli «scioperi di una volta», ma non c'è confronto con una controparte che non contenga, almeno in potenza, elementi di scontro. Ci stiamo attrezzando in questo senso? Che cosa pensiamo di fare se ci dovessero essere, come immagino ci saranno, profonde divergenze con la Fieg? Su quale base pensiamo di ipotizzare una eventuale mediazione? Una moderna visione del conflitto, che individui anche strumenti alternativi all'astensione dal lavoro (penso al modello di puntuale informazione dei lettori nella vertenza de Il Corriere della Sera, soltanto per fare un esempio), è fondamentale per puntellare una discussione negoziale quanto mai difficile e che non ci vede partire da posizioni di forza.

Le regole del sistema

Infine, ma il tema meriterebbe un approfondimento a parte, non credo si possa ipotizzare un accordo fra le parti senza inserirlo nel contesto di un progetto di riforma del sistema dell'informazione in Italia. Questo è forse uno dei punti su cui si può stringere con la Fieg un «patto fra produttori». Riscrittura in chiave moderna della legge sull'editoria, nuove regole contro gli oligopoli (senza penalizzarne la competizione su scala internazionale), statuto dell'impresa editoriale, riforma dell'Ordine dei Giornalisti: sono tutti passaggi necessari, per altro individuati da tempo, di quella profonda revisione delle regole di sistema che serve a mettere in sicurezza un delicato ganglio della democrazia come l'informazione.
Paolo Butturini